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Ho appeso lo zaino al chiodo?

Sono tornata dalle vacanze estive con una voglia prepotente di pace e cucina. Oggi, per esempio, dopo aver dato da mangiare all’inquietante blob che abita il mio frigo e dovrebbe sostituire il lievito (l’ho chiamato ET anche se  restando alla filmografia di Spielberg assomiglia molto di più agli alieni de La guerra dei Mondi, come livello di crescita ed aggressività) e sfornato tre teglie di cookies, guardo soddisfatta la luce che entra dalle finestra e abita la mia (provvisoriamente) cucina antidiluviana, seduta sul divano, una tazza di caffè fatto con la Moka e un biscotto nell’altra mano, i piedi sul tappeto colorato che ho portato da Pisa e che mi aveva seguito dalla Liguria. Metto sul piatto del giradischi un vinile di Bob Dylan. I miei occhi passano dall’iPod al giradischi e mi assale una punta di disagio.

Per un anno ho vissuto con la casa che mi seguiva sulle spalle, dentro avevo tutto quello che mi serviva: computer e smartphone per telefonare, internet e film, iPod e cuffie avvolgenti per isolarmi dal mondo, il Kindle per leggere. Dormivo nel sacco a pelo, sintetico in maniera da poterlo lavare direttamente con la spugna. La mia cameretta doppia offriva anche un armadio e cassettiera fin eccessivi per il mio guardaroba (questo non è cambiato). Caffè solubile. Biscotti comprati. In un’ora mi sarei potuta trasferire dall’altra parte del mondo. Ero orgogliosamente minimalista, e tale mi reputo ancora adesso. Ma lo sono davvero ? Quando ho disfatto lo zaino ?

Avendo poche ricette per curare il disagio e non potendo mangiare tutti i biscotti, sono andata a rileggermi un libriccino programmaticamente piccolo e lieve, Nuova Filosofia delle Piccole Cose di Francesca Rigotti. Racconta della brocca, di heideggariana memoria, il dialogo sbuffante e stringato del ferro da stiro, la fame (di pane e di sapere), il rito del caffè, il rasoio (quello da barba e quello di Ockham), il filo (del tessuto, di Arianna, della vita, del discorso), la sporcizia, il sapone, la scopa e lo scolapasta. È una fenomenologia delle cose quotidiane che passa attraverso le metafore che le dicono. Si raccontano oggetti che abitano cucine, bagni, camere da letto ma che con tutta la buona volontà non entrano in uno zaino. Cose (res) che conosciamo non solo, e non prima, attraverso la vista, ma che esperiamo con il naso, l’udito e il gusto. Cose piccole che rivendicano la loro importanza in opposizione al regno roboante delle cose grandi, della storia, dei condottieri e dell’economia. Cose imprescindibile nella costruzione di noi stessi: senza il regno delle piccole cose “smetteremmo di parlare, e di pensare”, o meglio non avremmo mai imparato a parlare e a pensare. Proprio perché abbiamo imparato a parlare approcciandoci al mondo nella sua interezza, non possiamo scindere il linguaggio dalle cose e dalle loro metafore, così come non possiamo dare a una torta una forma diversa da quella della teglia dove l’abbiamo cotta. Una lingua filosofica come il tedesco lo mostra chiaramente:

“Non c’è be-greifen (concepire intellettualmente) senza greifen (afferrare manualmente), … : il pensiero nasce infatti dalla relazione con le cose, cioè dalla mani-polazione che ne facciamo”1.

Francesca Rigotti, Nuova Filosofia delle Piccole Cose

L’autrice, nata a Milano, vive in Svizzera e insegna in Germania. Si chiede allora se la “libertà del migrante” (migrazione non drammatica nel suo come nel mio caso) non porti un ritorno del pensiero a cose piccole, distruggendo “la gerarchia dell’ordine universale e le ideologie e immagini del modo che ad essa si appoggiavano”. Ha detto Sir Winston Churchill:

Siamo noi a dar forma agli edifici; dopodiché sono loro a plasmarci.

Winston Churchill

Il migrante ha forse una maggior libertà di costruire e ripensare gli edifici che lo ospitano. Quella leggerezza iniziale, data dallo spogliarsi volontario e forzato del muoversi, lo porterà a dare forma e corpo a edifici leggeri, essenziali come le valigie che l’hanno accompagnato. Ogni oggetto che entra in quello spazio verrà soppesato, valutato, annusato, gli verrà chiesto conto e ragione di se stesso, perché la domanda sottintesa è: mi arricchisce o mi appesantisce?

  1. Il nostro afferrare (come l’inglese grasp) ha entrambi i significati di “concepire con la mente” e di “stringere con le mani” []

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